La Maratona di Padova era il mio obiettivo dichiarato per il 2025.
Si, solo cinque mesi dopo Valencia era un rischio, ma in realtà un rischio che ho scelto consapevolmente.
Sono arrivato al via convinto di poter fare bene.
Gli allenamenti erano andati come dovevano, anche il test di Yasso a dieci giorni dalla gara (pur con fatica) mi aveva dato un’indicazione buona: 2h46'.
In linea con le mie aspettative.
I due giorni precedenti sono passati sereni, condivisi con Mony e con Giorgio e Claudia, che riescono sempre a rendere ogni momento semplice e comodo.
Il giorno della gara la sveglia suona alle 5.
Il respiro.
Le gambe.
C’è tensione, sì, ma è buona.
Di quella che non ti irrigidisce, ma ti tiene attivo.
Colazione leggera, bacio a Mony e poi via, lungo via Umberto I.
Non corro ancora, ma ogni passo è già parte della giornata, voglio godermelo.
A metà strada, da una traversa sbuca una coppia.
Lui è un runner, si vede subito. Mi guarda, sorride. “Pronto?”, mi chiede.
Rispondo che sì, ci siamo. Dico “siamo” e non so perché. Ma suona bene così.
Sul pullman sono da solo, Giorgio e Claudia sono saliti su quello precedente.
Ci vedremo direttamente in zona partenza.
Mi guardo intorno, controllo le sacche degli altri per assicurarmi di essere sul pullman giusto.
C’è un bel mix di lingue e provenienze: italiani, francesi, inglesi, ungheresi. Alcuni indossano la maglia dell’Università di Padova.
Sorrido senza rendermene conto: l’energia comincia a farsi sentire.
Alla partenza faccio tutto quello che serve: bagno, deposito borsa, due chiacchiere con Giorgio e Claudia (come sempre leggere e comode), poi la mia routine di riscaldamento.
Entro in griglia solo cinque minuti prima del via.
A differenza di Berlino o Valencia, qui la partecipazione è molto più bassa e qui si può fare.
Concentrazione, un pensiero a Mony, il mio mantra. E si parte.
Le gambe girano bene da subito. Non leggerissime, ma “presenti”.
Dopo un chilometro si forma un gruppetto da 4-5.
Il ragazzo davanti si gira e con accento romano dice: “Tutti a 3’55”? Dai, così non stiamo soli.”
Sorrido.
Dentro mi godo la fortuna: ho preso subito il treno giusto.
3’55", 3’54", 3’55". Matteo (scoprirò il nome dopo) dice: “Siamo dei metronomi”.
E in effetti sì.
Al km 8 Matteo e “canotta gialla” allungano. Io guardo il Garmin, sono sempre sul mio ritmo. Lascio andare.
Non so se stanno accelerando volontariamente o se è solo entusiasmo, ma scelgo di restare dove sono.
I chilometri scorrono. Il gruppo si sfalda, ma restiamo tutti a vista. L’atmosfera è molto diversa da Valencia: qui ci sono lunghi rettilinei nelle campagne, pochi spettatori. Silenzio, tanto. Se urlassi mi risponderebbe l’eco.
I primi 20 km passano così, nel vuoto, ma lucidi.
Tra il 18° e il 21° c’è un rettilineo infinito, tutto dritto, neanche un paesino.
Passo alla mezza in 1h22’10”: perfettamente in linea.
Un piccolo picco di adrenalina, mi ricarica.
Vedo sia chi ho davanti che chi ho dietro.
Matteo è circa 30” avanti, canotta gialla l’ho ripreso durante il rettilineo.
Poco dopo si aggiunge un nuovo compagno di viaggio: canotta viola, spalle larghe, alto.
Fisicone da atleta.
Scoprirò poi che si chiama Alex e che sta cercando la qualificazione per i mondiali Ironman.
Siamo al 22° chilometro.
Curva a destra e ci inseriamo su una statale.
Niente più paesini, solo alberi verdi lungo i lati e colline dolci in lontananza.
Quelle stesse colline che, per quanto lievi, rendono il percorso meno piatto di quanto sembri.
A occhio nudo tutto appare dritto, ma chi ha corso abbastanza maratone lo sa: dopo la mezza, ogni variazione di pendenza si amplifica.
Se non sei nella giornata perfetta, non è più un dettaglio.
La sto prendendo alla larga per dire che qui… tutto ha iniziato a finire.
Non in modo brusco, non c’è stato un crollo, ma qualcosa lentamente si sta spegnendo.
Sento che il margine si assottiglia. Non è crisi, ma è un’incrinatura netta, sia nelle sensazioni che nella fluidità di corsa.
Le gambe non girano più come prima, e soprattutto, per la prima volta, inizio a pensare.
Inizio a fare calcoli. E quando cominci a farli, quasi mai è un buon segno.
Provo a seguire i consigli di Diego che, più esperto di me, mi disse:
”…se senti che non gira rallenta volutamente di 20”/30” e recupera, poi ti rimetti al tuo passo, ma stai sempre in TU in controllo della gara”.
Ci ho provato, ma non sono più riuscito a mettermi al ritmo iniziale.
Dai 3’55” sono sceso a 4’, poi a 4’25” per poi ristabilirmi attorno ai 4’10”.
Un’altalena senza ampiezza di movimento.
Aumenta la percezione di fatica, ma non si alzano più i giri del motore.
Calcoli e pensieri in testa, caos e confusione.
Ho perso lucidità.
Semplicemente mi sono fatto trascinare dai pensieri senza rimanere lì, in quel presente, dove per mesi mi ero allenato.
A quel punto l’unica cosa che ogni tanto usciva era la grinta e la voglia di esserci, ma il fisico ormai era disconnesso.
Con Alex ci sproniamo a vicenda, ma siamo entrambi belli cotti.
Con Matteo, che rispunta al 38° anche lui in crisi, proviamo a dar fuoco agli ultimi 3km. Il mio è un fuoco di paglia, lui invece qualche energia nascosta ce l’aveva ancora e riesce a chiudere bene.
Il mio ormai era un conto alla rovescia.
Taglio il traguardo in 2h50’30”.
Non è il tempo che avevo sognato.
Ora, dopo un mese, penso che non sia neanche un tempo da dimenticare.
È il risultato di un percorso.
Fisicamente ero pronto. Questa volta ho ceduto mentalmente.
O forse semplicemente avevo bisogno di un’esperienza di questo tipo, per correre più forte la prossima volta.
Va bene cara Maratona.
Facciamo pace.
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